Home  •  About  •  Links  •  Contatti  •

battaglia terme

Castello del Catajo

"Se vansa tempo"

Un romanzo a puntate disperso nel sito della vespa

1

CATAJO
20 marzo 1914.
Il treno entrò in Italia seguito da due labbra di polvere bianca. Il principe sonnecchiava militarmente, con gli occhi aperti sul paesaggio. Gli sembrava di vedere l’ombra dell’aquila degli Asburgo incombere e sorvolare il territorio circostante. Invece erano solo le nuvole che sostavano sulla linea dell’orizzonte, come la schiuma sull’orlo di un bicchiere. Ma sapeva che presto o tardi sarebbe successo, il Veneto e gran parte del nord Italia sarebbero finiti sotto la sua bandiera. Non l’aveva mai detto, ma quando aveva immaginato la trasformazione dell’impero negli Stati Uniti d’Austria, vi aveva incluso anche quella parte di mondo, che sentiva appartenergli. Gli piaceva la sensazione ambigua di torpore e di risveglio che gli dava la primavera italiana. Era come entrare in un solare bicchiere di birra. Tutto era avvolto nel fresco tepore del giallo. A Sofia, che lo osservava, non piaceva quella ebbrezza primaverile. Quelle terre e quegli uomini così lontani dall’Austria pur essendovi confinanti. Odiava lo stato italiano per ciò che aveva fatto alla Sacra Romana Chiesa. In ogni incontro con le autorità, con i diplomatici, con i re, di qualsiasi stato, non perdeva occasione per mostrare la sua indignazione e per scavare una trincea attorno al re che aveva osato tanto. Lei non guardava fuori dai finestrini, tutta quella fuga di alberi, prati e acque la confondeva. Così delicati e contrastanti con gli aspri paesaggi a cui era abituata. Preferiva sostare con lo sguardo sulla divisa candida e composta di Francesco Ferdinando. Si erano conosciuti e sposati nonostante l’opposizione di tutta la famiglia del prinzenkamp. Era il principe ereditario e sposando lei, i suoi figli non avrebbero potuto succedergli. Certo i Chotek erano una importante famiglia di nobili della Cecoslovacchia, ma non appartenevano al ristretto nucleo delle famiglie regnanti europee che potevano legarsi alla famiglia imperiale d’Austria. Francesco Ferdinando non aveva ceduto neanche all’imperatore Francesco Giuseppe, che del resto non lo aveva mai amato. Per l’imperatore lui era solo il nipote, reso freddo nei sentimenti dall’educazione militare che l’aveva allevato e che ora l’abbracciava come una madre protettiva. Per Sofia era diverso, la sua strada era illuminata dalla fede e nulla di quello che sarebbe successo poteva piegarla. Per ora si godeva la possibilità di poter viaggiare con il marito. Dopo la sua salita al trono dell’impero non sarebbe più potuta salire sulla carrozza dell’imperatore e quella era la sua massima preoccupazione. Avevano deciso di fare quel viaggio da soli, senza i figli. Andavano a Battaglia, un piccolo paese del Veneto del sud. In verità Francesco Ferdinando prima di intraprendere quel viaggio era solito dire ai suoi amici: vado in battaglia, (ich gehe in die schlacht) ,invece di vado a Battaglia (ich gehe nach Battaglia).Era una delle sue battute migliori, anzi l’unica, peccato che potesse dirla così poche volte. Lì in quel piccolo paese, gli Asburgo avevano una tenuta con un castello. In realtà era una villa tutta merlettata. Gli italiani amano travestirsi, mostrarsi per ciò che non sono, ma un po’ di più. Amano l’opera, il teatro, sono dei grandi attori e a Francesco Ferdinando non dispiaceva immergersi una volta all’anno in quel mondo, quel tanto che bastava per paragonarlo al suo e uscirne vincitore. Il castello si chiamava Catajo , era stato fondato dagli Obizzi, una famiglia di soldati, uno dei quali aveva inventato l’obice, che da lui aveva preso il nome. Quella famiglia aveva lentamente allargato la villa e l’aveva arricchita di una collezione di monete e di un piccolo museo di statue. Ma la parte che piaceva di più al prinz era la raccolta di armature e di armi. Già da tempo aveva provveduto a spostare con un paio di treni quasi tutta la raccolta. Mentre era stato il duca di Modena, da cui aveva ereditato il castelletto, ad appropriarsi delle monete e parte delle statue. Ora l’unica attrattiva, a parte le poche cose rimaste, era la riserva di caccia che stava sul colle alle spalle della villa. Circondato da mura e con una piccola torre in cima, conteneva un discreto numero di daini. Animali che non mancavano di certo in Austria, ma nel paesaggio italiano, assumevano tutto un altro significato. Erano arrivati. Dopo Padova erano scesi dal treno e saliti su delle auto che li aspettavano, il treno aveva proseguito per il castello. Il lato a nord del Catajo era in parte chiuso alla loro vista dagli alberi del colle riserva di caccia. Vi erano altri quattro colli, che cingevano le terre della tenuta con un romantico arco. Il corteo rallentò e contemporaneamente apparve il lato merlato ad est. Sorreggeva il cielo striato di rosso dal tramonto. Erano delle grosse strisce rosse, che sbiadivano ai lati. Come le macchie lasciate sulle tovaglie dopo le sostanziose cene italiane nel castello, dai bicchieri di vino rovesciati. Curvarono sul ponte che portava al portone d’ingresso. Una piccola folla vi si accalcava, sostando anche sulle spallette. Sembrava che l’intero paese si fosse raccolto lì ad aspettarli. Per fortuna il loro arrivo doveva essere tenuto segreto. Ma degli italiani non ci si poteva fidare. Come faceva il duca di Modena ad usare quel posto come rifugio? Gli abitanti del paese erano lì a mostrare i palmi delle mani per chiedere l’elemosina, per vendere ceste di mercanzia o per offrire chissà quali straordinari offici. Francesco Ferdinando fece cenno ai suoi attendenti di gettare qualche moneta e disse di avvertire quelli che offrivano la mercanzia di presentarsi alle cucine. Ma la folla aveva individuato la loro auto e vi si accalcò contro, pericolosamente. Si schiacciarono sui vetri con i loro volti bianchi e magri. Sofia non riusciva a scostare lo sguardo da quella moltitudine di occhi. Le orbite erano incavate e le pupille risultavano enormi, il tutto, avvolto in quell’atmosfera resa rosea dal tramonto, le creava delle inquietanti suggestioni. Abbassò le palpebre e respirò con forza l’aria viziata dell’auto. Il brusio cantilenante e colloso del linguaggio di quella gente le ronzava nelle orecchie. Sbatté le palpebre e vide le facce vorticare. La sorresse l’ordine impartito da suo marito. La scorta e gli uomini usciti dal castello allontanarono la folla e la colonna riuscì a varcare il cancello. Scesero dall’auto con qualche difficoltà per le membra intorpidite dal lungo viaggio. Le altre auto proseguirono verso il fondo della strada. Davanti all’entrata c’era la servitù schierata ad attenderli. Molti austriaci che vivevano lì tutto l’anno con una piccola guarnigione di soldati e un piccolo gruppo di italiani che si occupavano dei lavori più umili. Francesco Ferdinando fece un breve discorso mentre Sofia distoglieva lo sguardo.
Aveva paura d’incontrare il volto di quella piccola cameriera figlia del borgomastro austriaco che aveva costruito il ponte d’accesso al castello e di una donna del posto. D’altra parte non sapeva dove guardare. Il tramonto incombeva sul giardino di fronte e alle sue spalle vi era la villa con le sue trecentosessantacinque finestre. Trecentosessantacinque quadri sul paesaggio romantico italiano, una continua provocazione ai suoi sentimenti più nascosti. La curiosità le fece scorrere i volti schierati sul suo percorso verso l’entrata. Ed eccola lì, l’ irrispettosa serva bastarda. Prima di distogliere lo sguardo vide il suo sorriso e il volto privo di vergogna. Entrò rabbiosa, aveva dato ordine di licenziarla,ma in quel posto tutto era relativo. Preceduta dalla sua cameriera e da una serva si diresse alla sua stanza. Le due dame di compagnia, una sua vecchia amica e una cugina del marito, che l’avevano accompagnata in quel viaggio, furono accompagnate nei propri alloggi.Sofia occupava la stanza che era stata del duca. L’aveva scelta, non per gli affreschi o per il letto a baldacchino o per il verde che dominava la tappezzeria, ma perché nella sua prima visita al castello solo in quella aveva visto un inginocchiatoio. Disse alla cameriera che non sarebbe scesa per la cena. Voleva evitare il vino. Disse che era stanca per il viaggio e che voleva qualcosa di caldo da bere in camera. Dopo aver congedato la cameriera si avvicinò alla finestra per chiuderla. Poteva farlo anche da sola, visto che ormai era quasi buio e il paesaggio stava dissipando le sue caratteristiche nei contorni scuri. Aprì i vetri e si sporse, il sole morente esalò un ultimo raggio che dal rosso virò al verde. Quella luce particolare la colse di sorpresa e la visione del colle catturò tutta la sua attenzione. Nell’ultimo barlume vide due occhi che la guardavano, non erano umani. Chiuse la finestra velocemente e si lasciò cadere sul letto. Quella piccola vacanza non iniziava nel migliore dei modi, tutte le sue previsioni si stavano realizzando. I colpi alla porta la risvegliarono, aveva freddo. Disse di entrare, si sarebbe fatta aiutare a svestirsi e dopo aver bevuto la bevanda calda si sarebbe subito infilata a letto. Ma era proprio la serva che lei non avrebbe voluto vedere. Sfacciata come al solito, le rivolse la parola non interrogata e le chiese come stava. Sofia non rispose, le disse di posare il vassoio e di lasciarla sola. Poi si precipitò sulla bevanda e si scottò le labbra, negli italiani non si poteva contare neanche per la preparazione di una stupida tisana. I bagagli arrivarono in quel momento con la sua cameriera. Si fece aiutare da lei e un attimo prima d’ inginocchiarsi a pregare, fu raggiunta da Francesco Ferdinando, che voleva sincerarsi del suo stato. Poi pregò finché le palpebre ressero il confronto col lume. Fu svegliata da un botto tremendo. Proveniva dal lato dell’edificio dove si trovavano le stanze del museo ormai svuotato. Il castello fu percorso da un brusio. Nel torpore si rese conto che poteva essere stato uno sparo. Si sollevò dal letto e uscì per affacciarsi alla camera del marito. Il buio era freddo e avvolgente. Rientrò nella stanza, il castello era percorso da una sorda agitazione. Sentì dei passi e la voce del marito che diceva a tutti di tornarsene a letto. Uscì nel corridoio. Sul fondo apparve una luce fioca, che man mano cresceva fino ad allungare il suo chiarore sui muri a lei vicini. Era il prinz, soverchiato dalla sua ombra gigantesca proiettata sul soffitto. Aveva ancora la divisa bianca, sbottonata, senza cappello, e attaccato al petto aveva un paracuore di metallo. In una mano aveva la lampada nell’altra teneva il fucile. Sorrideva. Le si avvicinò e le mostrò il buco nel paracuore. Era andato nelle stanze del museo a vedere le poche cose rimaste. Aveva trovato quel paracuore e siccome per tutta la cena aveva parlato del nuovo fucile di precisione che usava per la caccia, aveva fatto una scommessa con i guardiacaccia locali: alla sola luce della lampada, nel corridoio, avrebbe colpito il bersaglio. Ora era lì, davanti a lei, col suo trofeo legato al petto. Lo pregò di toglierselo, quel buco le faceva impressione e non le sembrava di buon auspicio. Lui, imperterrito, seppur vago per la stanchezza del viaggio e il vino bevuto a cena, tenne un discorso sulla mancanza di superstizione che le era sempre stata propria. Lei restò sorpresa, per il palese rimprovero e si congedò, ritirandosi nella stanza. S’infilò a letto, ma per tutta la notte fu perseguitata e agitata da un’inquietudine che le impedì di riposare. La mattina successiva, come al solito, Francesco Ferdinando fu uno dei primi ad alzarsi. Seguito dai guardiacaccia, senza fare colazione, si recò sulla torretta col fucile. Le cerbiatte erano tutte su quel lato, ad aspettare il calore del sole. Il prinz caricò, indicò una preda e puntò. La distanza era notevole, il cielo era terso. Spirava un leggero vento freddo che andava via via riscaldandosi. Il cielo, alle spalle degli uomini, si stava illuminando di rosa. L’erba ai piedi delle ignare cerbiatte era verde scuro e brillava per le centinaia di gocce di rugiada. La cerbiatta sollevò la testa. Lo sparo fece scappare tutto il gruppo e colpì la preda indicata, risvegliando Sofia dal suo inquieto torpore. La vittima piegò le gambe anteriori, le risollevò, sembrò farcela, stupendo i cacciatori. Spinse di slancio sulle gambe posteriori ma quelle anteriori cedettero e così fece una capriola e si rovesciò sull’erba, mescolando il suo sangue con la rugiada. I guardacaccia applaudirono il colpo. Nel folto del bosco un maschio sollevò il palco imponente e annusò l’aria.I cacciatori scesero a fare colazione. Sofia suonò il campanello e si alzò. Quando la cameriera entrò la trovò sull’inginocchiatoio. Disse una rapida preghiera e si vestì, indossò un abito da passeggio. Non intendeva allontanarsi, ma solo andare nel giardino della villa. Fece aprire la finestra e si costrinse a guardare fuori. Vide un uomo chino su una massa scura. L’uomo si sollevò e infilò in un sacco una cosa sanguinolenta. Sofia urlò. La cameriera la raggiunse ed insieme videro fuggire l’uomo. Raccontò tutto al marito quando arrivò. I guardacaccia confermarono che da tempo cercavano di catturare un bracconiere, senza risultato. Lui li mandò a prendere la sua preda e rimase alla finestra finché non la raggiunsero e se la caricarono sulle spalle.Dopo colazione passeggiarono nel giardino lungo il lago artificiale e poi si fermarono a prendere il sole con i loro ospiti. La mattinata passò in fretta. I cigni bianchi calmarono le paure di Sofia. Le oche e le anatre attirarono lo sguardo da cacciatore di Francesco Ferdinando, ma la quiete ebbe il sopravvento. Il vento tiepido pacificava la giornata, convincendo il gruppo che le chiacchiere erano il modo migliore di spendere il tempo. Dopo un pranzo di cibi lontani dalla tradizione e dai gusti a cui erano abituati, Sofia, felice per essere riuscita ad evitare il vino rosso, si ritirò per riposarsi. Passando di fronte alla finestra qualcosa attirò la sua attenzione. Di fronte a lei un daino altero e imponente se ne stava immobile sopra l’ombra di sangue della cerbiatta. Stava guardando lei. Passarono lunghissimi secondi prima che riuscisse a chiamare il marito. Ferdinando entrò dopo aver bussato. La affiancò e rimase in ammirazione dello splendido animale. “Vado a prendere il fucile.” Disse infine. Ma appena lui si allontanò, anche il daino camminò via senza fretta.Il pomeriggio passò inutile e ozioso per tutti, meno che per Sofia, schiacciata dalla prorompente bellezza romantica del paesaggio. S’impose di stare al chiuso, ma appena andò nella sua stanza, non poté evitare d’ avvicinarsi alla finestra. Il daino era là e la osservava. Andò all’inginocchiatoio e pregò, quando si rialzò il daino era ancora nello stesso posto, nella stessa posizione e con lo stesso sguardo. Scese e andò incontro al marito che tornava da una passeggiata. Gli raccontò del daino, lui salì subito in camera ma ridiscese, dicendo che l’animale se n’era andato. Al crepuscolo quando Sofia si andò a preparare per la cena, avevano invitato dei nobili del luogo che parlavano l’austriaco, rivide il daino, circondato da un alone buio ma con gli occhi illuminati dalla luce del tramonto.
Era uno sguardo animale, fisso e senza sentimenti, ma Sofia non lo reggeva. Suonò il campanello e arrivò la serva che lei non sopportava. Le indicò la finestra. La serva si affacciò e disse in tedesco “E’ un bel maschio. Suo marito le ha ucciso la femmina incinta e lui è confuso. Non sa dove trovarla. Il cervo è un animale sacro…..” Basta così l’interruppe, non tollerava le credenze e la superstizione pagana di quella serva. Ma lei continuò “Non credo cerchi vendetta. Penso piuttosto che si senta solo, forse cerca la stessa morte.” Sofia la congedò e si vestì rabbiosamente da sola, fino all’arrivo della sua cameriera, avvertita dalla serva.Fu una serata piacevole, nonostante la frivolezza degli ospiti italiani e il loro pessimo tedesco, ma questo forse fu un bene secondo Sofia. Col vino rosso si bagnò poco più che le labbra, ma scoprì, più tardi, che questo l’aiutò ad addormentarsi, nonostante pensasse che il daino fosse lì fuori, ad osservare la sua finestra. Ed infatti la mattina successiva l’animale era al solito posto, fiero e impassibile. L’aria era insopportabilmente piena di polline e di luce. Il paesaggio che circondava l’animale era bello da far male agli occhi. Chiamò il marito e lui aspettò il suo permesso per entrare dopo aver bussato. Quando vide il daino, Francesco Ferdinando fu preso da una strana agitazione. Il pomeriggio del giorno precedente l’aveva cercato con una battuta di caccia, senza scovarlo. La sua scorta aveva pattugliato le mura, mentre lui con gli attendenti, i guardiacaccia, un nobile italiano e un cittadino tedesco che si era stabilito nel paese, erano entrati nel bosco. La scorta lo seguiva ovunque per una stupida voce che parlava di presunti attentatori alla vita del prinz. Francesco Ferdinando non ci credeva ma aveva accettato, seppur a malincuore, quelle precauzioni. Comunque, avevano girato a vuoto alla ricerca di quel daino. Avevano incontrato solo giovani maschi con piccoli palchi. Aveva permesso al nobile italiano di sparare ad uno di quelli, ma la sua mira si era dimostrata imprecisa. La cosa più divertente era stata la merenda alla torre di avvistamento in cima al colle. L’interno era fatto di finta roccia, a ricreare una grotta. Ma lo spiazzo circostante, verde, macchiato di sole ed ombra, rinfrescato dal vento, era incantevole. Ora l’animale era davanti a lui immobile. Francesco chiamò i guardiacaccia e gli ordinò di portagli il fucile. Lo prese e disse ai guardiacaccia di andarsene. Nella camera rimasero solo lui e Sofia. Si appoggiò alla finestra dopo aver caricato. Rimase un momento fermo immobile senza respirare. Poi sparò. Sofia sobbalzò e le orecchie le fischiarono per parecchi secondi, l’acre odore rilasciato dal fucile le salì alle narici, facendole strizzare gli occhi. “Bel colpo.” Gioì suo marito. Ma il daino non si mosse. “O l’ho colpito o dovrebbe scappare.” Disse, ma il daino non si muoveva. Sparò un altro colpo. Il daino scartò di lato, poi si rimise in posizione. Girò la testa una volta, poi un’altra come se volesse scacciare un insetto fastidioso. Il terzo colpo piegò le ginocchia di Sofia,ma fu il daino che crollò a terra. Francesco esultò, si girò e la strinse. “Stupendo animale. Stupendo ma stupido. O pazzo o stupido.” La prese sottobraccio e la portò a fare colazione. Passarono la mattina nel giardino e fu lì che Sofia chiese se potevano ripartire il giorno seguente. Dovevano rimanere una settimana, questa era stata l’idea di quel viaggio. L’erede dell’impero ci pensò molto e poi l’accontentò, dicendo, però, che dovevano aspettare una cosa, per la decisione definitiva. Ma non le disse quale.Fecero un pranzo veloce e leggero all’aperto. Francesco Ferdinando aveva detto che dovevano prepararsi per una cena sostanziosa. Sofia chiese di poter salire in camera prima che il prinz finisse e così fu. Andò alla finestra, curiosa. Il corpo del daino era ancora là. Sembrava muoversi, solo dei piccoli sussulti, poi si sollevò. Sofia si portò la mano alla bocca lanciando un urlo muto. Sotto la carcassa del daino apparve un uomo. Ci furono delle urla, dal bosco uscirono i due guardacaccia armati. Il bracconiere buttò dalle spalle l’animale e scappò. Uscirono tutti dal quadro della finestra e Sofia rimase in attesa dei rumori. Una voce femminile gridava qualcosa in italiano da un’altra stanza. Sofia uscì e guidata dalla voce varcò una porta socchiusa. C’era la serva che guardava sporgendosi, Sofia si protese alle sue spalle e vide che l’uomo si era gettato nel canale, uno dei guardiacaccia lo teneva sottomira e l’altro si gettò anch’esso nell’acqua. Il bracconiere fu preso e costretto a tornare a riva. Poi i tre girarono attorno alla villa sul lato ad est e sparirono alla vista. La serva si voltò dicendo “Cossa che i ghe farà poareto, el se solo un poareto ch’el ga fame.” Solo allora si rese conto della presenza di Sofia e la riverì. Lei non rispose al saluto e uscì per raggiungere l’esterno della villa. Quando Sofia Chotek, arrivò all’esterno Francesco Ferdinando era già vicino all’uomo e stava estraendo delle cose dal sacco che quello portava con sé. Lei incrociò il guardiacaccia che si era gettato nel canale e ora tutto bagnato se ne andava a cambiarsi. Arrivò alle spalle del marito mentre questi, mostrando ciò che aveva in mano, chiedeva spiegazioni al prigioniero. Quello se ne stava in ginocchio, con la testa bassa e i capelli bagnati che gocciolavano sulla ghiaia. Era vestito poveramente e i piedi erano nudi. Lei inciampò e poggiò le mani sulla schiena del marito per non cadere, lui fece un balzo in avanti per la spinta e si girò di scatto. In una mano aveva il cuore del cervo e nell’altra….., si, Sofia lo riconobbe era un feto di daino. Il marito era silenzioso, alzò lo sguardo e vide una macchia di sangue sul petto della divisa candida. Un alone rosso, che si stava rapidamente allargando verso il basso. Sofia svenne. La portarono nella sua stanza e appena rinvenne il marito andò a trovarla. Lei aveva pensato che fosse ferito, invece si era macchiato con il cuore che aveva in mano, per la spinta ricevuta. Ora indossava un’altra divisa e sorrideva, senza alcuna preoccupazione.Sofia chiese di rimanere sola. Lui le disse che la mattina successiva sarebbero ripartiti. Il bracconiere era preso e non c’era più nulla da attendere. Le domandò se sarebbe scesa a cena e lei annuì. Appena sola suonò il campanello e alla cameriera chiese di chiamarle la serva. La cercarono ma non c’era, era andata a casa, in paese. La mandò a prendere.La serva si presentò nella sua stanza trafelata ma per nulla intimorita. Sofia le ordinò di spiegarle la storia delle finestre che le aveva raccontato l’anno prima.“Bene” disse la serva “ in questo castello ci sono 365 finestre, sono state costruite con uno scopo: predire il futuro. Ad est la primavera, ad ovest l’autunno, a nord l’inverno a sud l’estate. Basta andare in uno di questi lati e scegliere, spalancare e a seconda di quello che si vede, interpretare il futuro.” Sofia si alzò e seguita dalla serva si diresse ad est. Entrarono in una grande stanza buia. Sofia scelse una finestra ed andò ad aprire i vetri coperti da spesse tende. Si aspettava l’irrompere gioioso della luce nella stanza ed invece, appena aprì la prima metà della finestra, solo un misero dito di luce che passava da un buco, le si piantò nel petto.
Aprì l’altra metà e un altro bucò lasciò filtrare un altro piccolo raggio. Provò a spingere, ma gli scuri erano inchiodati. Spinse di rabbia e di forza. Dopo aver ceduto alle superstizioni voleva almeno una finestra spalancata, ma riuscì solo a ferirsi con una scheggia. Si girò e nel buio vide i due raggi polverosi di luce. Erano due occhi tondi e gialli, sul muro, che la fissavano. Lo sguardo fisso del daino. Scappò via nella sua stanza, a pregare.All’ora di cena, scese senza mostrare nessun cambiamento nel suo solito umore. Fu una strana cena, con salumi veneti, pasta, polenta, daino e vino rosso. Cedette miseramente al vino rosso. Era sanguigno nel colore e asprigno nel gusto. Buono, più il secondo bicchiere del primo e ancor di più il terzo. Si ritrovò a letto senza accorgersene, con il sapore della selvaggina che galleggiava nella forza del vino. Quella notte suo marito entrò nella stanza senza bussare ed era da tanto che non lo faceva. Fu una bella notte, ma il mattino dopo ne serbò un ricordo sfumato. In ogni caso non le dispiacque partire. Non badò se ci fosse la serva fra i domestici in fila e notò solo che non c’era nessuno al di là del cancello che allungasse le mani per avere qualcosa. Due mesi dopo Francesco Ferdinando, principe ereditario dell’impero austriaco, e sua moglie Sofia Chotek andarono in visita a Sarajevo. Quattro uomini erano lì per uccidere il prinz. Due di questi non fecero nulla. Il terzo lanciò una bomba, ma mancò il bersaglio colpendo la folla alle spalle dell’auto dove viaggiavano i consorti. Venne catturato dalla folla inferocita. Al principe fu sconsigliato di proseguire la visita. Ma lui sostenne che non c’era più pericolo. Gli chiesero almeno di cambiare itinerario e dissero all’autista di viaggiare veloce. Questi lo fece e passò di fianco al quarto attentatore, ma si accorse di aver sbagliato strada e fece manovra per tornare indietro. Gavrilo Princip era proprio lì e approfittando della bassa velocità dell’auto, impugnando la pistola, aprì la porta e sparò a Francesco Ferdinando uccidendolo, poi puntò all’attendente e sparò ancora. Sofia impaurita chiuse gli occhi e mentre l’attentatore sbagliando mira la colpiva, lei vide lo sguardo del daino che la osservava mentre sotto di lei s’allargava un’ombra di sangue.

Continua..

La prossima puntata apparirà sulla pagina del museo dei barcari.

Vespa GO Social




Le vignette

img

I disegni

img